Pelle nera a canestro (scritto per Articolo3, rivista di politiche sociali)
L’ambiente della Pallacanestro italiana, come tutti quelli dello sport del nostro paese, ha mille difetti e mille storture, milioni di nei e chissà quante zone d’ombra. Ma ha anche un pregio: quello di essere molto reattivo rispetto ai comportamenti scorretti e socialmente riprovevoli. La campagna promossa dalla FIP, la nostra federazione, in tempi veramente rapidissimi e conosciuta col nome di ‘Vorrei la pelle nera’ in conseguenza degli insulti razzisti aggravati da sputi e spintoni subiti da Abiola Wabara, giocatrice della Geas di Sesto S.Giovanni qualche giorno fa, ha sorpreso tutti per tempestività e clamore occupando giustamente perfino prime pagine di giornali, sportivi e non. Ora, in sede di primissimo bilancio per analizzare a posteriori i fatti concreti e le reazioni, le mille iniziative e anche qualche silenzio del week end cestistico passato, non possiamo esimerci da fare alcune considerazioni, che credo interessanti per voi che vi occupate di ‘corretta informazione’, sulle modalità di linguaggio e sulla visibilità dell’operazione. Innanzitutto, vorrei far notare i due binari sui quali si è propagata, le due linee sulle quali ha viaggiato questa notizia: quella nazionale, centrale e quella locale, periferica. Secondaria, direbbero i ferrovieri. L’intuizione geniale della Federazione Italiana Pallacanestro, e soprattutto del suo presidente Dino Meneghin, è stata quella di enfatizzare l’accaduto e di renderlo ‘notizia’. L’enfatizzazione in luogo della consueta minimizzazione, così normalmente attuata in circostanze simili, è stato un indubbio atto di coraggio aldilà dell’ovvio (ma è ovvio per noi, che siamo attenti a queste inciviltà diffuse) senso di civismo e della conseguente denuncia di comportamento scorretto e inaccettabile. Anche il successivo annuncio della clamorosa iniziativa di risposta al razzismo ed alla discriminazione ‘Vorrei la pelle nera’ ha avuto ovviamente i crismi della enfatizzazione per poter bucare il lenzuolo di silenzio e di superficialità che avvolgono, e spesso soffocano, gli accadimenti veri in questo nostro paese. Il rischio, relativo e comunque accettabile, è stato quello che, almeno sul piano nazionale (Serie A, mondo professionistico, giornali e tv), la notizia dell’iniziativa federale ‘coprisse’ quella degli sputi ad Abiola, ma è evidente che la funzione vettoriale in questo caso ha fatto appieno il suo dovere e abbiamo assistito a gare e saputo di partite nelle quali tutti (giocatori, dirigenti, arbitri e molto del pubblico) hanno mostrato segni di solidarietà verso la giocatrice e atteggiamenti, almeno formali, di rifiuto verso ogni forma di razzismo. Diverso, molto diverso, è stato il propagarsi dell’iniziativa e le varie modalità di adesione nei luoghi decentrati del basket ‘minore’, in quei palazzetti o palestre di paese o di piccole città dove si giocano campionati di risonanza locale, partite che smuovono interessi e rivalità calde ma nascoste ai più e che devono proprio riguardare fasi cruciali del torneo per ambire ad una scarna menzione sul quotidiano provinciale. Magari anche tre o quattro giorni dopo l’evento. E’ il basket di periferia o di borgo, il basket giovanile che appassiona genitori, morose e qualche vecchio sportivo sbandato come me ma che offre, come in questo caso di solidarietà ad Abiola, la risposta più sentita, più spontanea, meno calcolata e più vera. In ogni squadra di pallacanestro, specialmente nel bresciano-bergamasco-cremonese dove io mi muovo, c’è un giocatore di pelle nera. Il più delle volte, specialmente nelle categorie dei più piccoli, nato qui. Italiano. E mi chiedo a proposito, stupito e angosciato, come mai i casi più clamorosi di insulti e cori di dileggio abbiano riguardato sportivi di colore e italiani. Di colore ma italiani. Abiola, Carlton Myrers e Balotelli, per citarne di famosi, operano in un ambiente che è affollato da atleti neri che spesso vengono anzi osannati perché, specie nella pallacanestro, obiettivamente più bravi. Anche i tre che ho menzionato sono molto bravi, ma vengono presi di mira perché di colore. O perché anche italiani? Ne parlo in tribuna tra un canestro e un fischio arbitrale. Tutti concordi, tutti pensosi, tutti corretti… Il razzismo con la sua becera scempiaggine pare proprio abitare altrove, nascondersi lontano: eppure è anche qui, lo senti sonnecchiare falsamente distratto nelle chiacchiere da bar, nelle considerazioni a margine dell’ultimo telegiornale coi suoi barconi stracarichi di umanità fuggita ma diversa. Ho visto tre partite di C Regionale in questo week end: a Verolanuova e a Montichiari nel bresciano, la terza a Cremona in città e ho avuto testimonianze dirette da altri tre o quattro campi, ancora nel bresciano e nel bergamasco. Essendo io dirigente federale provinciale, vi lascio immaginare lo stupore, divertito e anche un po’ canzonatorio, negli occhi della gente, giocatori compresi, che mi vedeva entrare nel palazzetto con la faccia semicoperta da segni neri. Evidenti, eccessivi, enfatizzati anch’essi ma anche in qualche modo contagiosi e liberatori per timidezze e inibizioni. Dappertutto, con mio grande piacere, ho prestato pezzi di scotch nero, quello degli elettricisti, ad amici e sconosciuti. Due note, per concludere: lo striscione artigianale ma commovente appeso in palestra a Verola con tanto di intelligente e altrettanto artigianale servizio filmato trasmesso poi su una tv via web molto seguita nell’ambiente (Canecaccia.tv), e il botta e risposta con un conoscente a Cremona che mi fa:”Beppe, sei proprio ridicolo conciato così” Gli rispondo “Sei più ridicolo tu a non avere nessun segno di partecipazione” Ha capito e mi ha chiesto un pezzo di nastro che si è applicato in fronte…. Un’ultima considerazione, amara. Purtroppo il basket nel mondo dello sport e la lotta a razzismi e discriminazioni nel mondo delle comunicazioni sono due fenomeni marginali, due interessi di nicchia. Ora che il week end enfatico è passato, si sente già aria di smobilitazione, ci si allontana dai riflettori di proscenio spesso manovrati da ‘nostro signore delle antenne’ e si torna nella nostra ombra, nel nostro discreto silenzio. Football e politiche muscolari, formule uno più o meno rosse ed emergenze di accoglienza con il loro insulto preventivo, il loro sputo di benvenuto chiamato ‘reato di clandestinità’, possono ternare a far mostra di sé in primo piano. Rimane però la consolazione, la consapevolezza orgogliosa che il piccolo mondo del basket, anche quello di strapaese che è quasi invisibile, quando è chiamato risponde. Alla grande.
Giuseppe Raspanti
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